MINE ANTIPERSONA: UNA SFIDA PER LA COMUNITÀ SCIENTIFICA

Giuseppe Nardulli
Dipartimento di Fisica e Centro Interdipartimentale di Ricerche sulla Pace, Università di Bari, I.N.F.N. - Sezione di Bari

Nel dicembre 1997 il premio Nobel per la pace è stato conferito alla Campagna internazionale per la messa al bando delle mine antipersona ed alla sua portavoce Jodie Williams. Si è trattato di un importante riconoscimento all'insieme di associazioni, gruppi e singoli individui che da alcuni anni cercano di sensibilizzare l'opinione pubblica sulla questione delle mine antipersona, sul peso economico, sociale ed umano da esse rappresentato, e sulla necessità di uno sforzo collettivo per risolvere questo drammatico problema.

Uno dei risultati più importanti raggiunti dalla Campagna Internazionale è stata la pressione su un gran numero di paesi per indurli alla firma di un trattato internazionale sulla messa al bando delle mine antipersona. Questi sforzi sono stati coronati da successo: alla fine del '97 nella conferenza ad Ottawa è stato raggiunto un accordo per il bando totale di queste armi. Il trattato ha finora ottenuto la firma di un elevato numero di paesi partecipanti e tra questi l'Italia (ma non ancora quella di paesi importanti quali gli USA e la Cina).
Questi risultati, per quanto significativi, non devono far perdere di vista le dimensioni del problema che la comunità internazionale ha ancora di fronte a sè. Infatti, anche se queste armi fossero definitivamente messe al bando in tutto il pianeta (e siamo ancora lontani dal raggiungimento di questo obiettivo), resterebbe ancora aperto il problema dell'eliminazione delle mine già disseminate in un gran numero di paesi.
La quantità totale di mine già disseminate è ovviamente molto difficile da valutare; si può tuttavia assumere come dato di partenza la stima fornita dalle Nazioni Unite che, per quanto grossolana, indica comunque l'ordine di grandezza del problema. Questa stima indica in circa 100 milioni in 62 paesi il numero delle mine antipersona disseminate finora, mentre il numero di quelle introdotte ogni anno sembra collocarsi attualmente fra 500000 e un milione. Negli ultimi 10-20 anni il problema ha assunto dimensioni particolarmente drammatiche per il gran numero di guerre civili e conflitti etnici durante i quali queste armi sono state utilizzate indiscriminatamente e al di fuori delle regole tradizionali d'impiego delle forze armate, che prevedono la stesura e la conservazione di mappe dei campi minati, utili per la successiva disinfestazione. Possiamo qui ricordare a scopo esemplificativo, l' Angola, il Mozambico, la Cambogia, l' Afghanistan, la ex Jugoslavia, etc.
La produzione delle mine antipersona è stimata in 5-10 milioni ogni anno, ripartita su un centinaio di produttori in 55 paesi. Il numero di mine distrutte ogni anno nelle operazioni di sminamento, si colloca invece, tra 100000 e 200000. Con questi ritmi, occorrerebbero centinaia di anni per eliminare completamente questi ordigni dai paesi nei quali essi sono presenti.

Un altro punto importante da sottolineare è che, mentre le tecniche di sminamento per scopi militari possono ritenersi efficaci e facilmente disponibili, quelle per scopo umanitario lo sono molto meno.
Infatti lo sminamento militare, che ha come scopo solo l'apertura di corridoi praticabili in mezzo a campi minati, non è affatto accettabile per gli standard richiesti dalle operazioni umanitarie. Queste ultime, invece, richiedono una bonifica del territorio virtualmente del 100%, dal momento che il principale problema di natura umanitaria è la restituzione di vasti territori all'attività e alla praticabilità economica, commerciale ed umana in generale. L'impatto delle mine antipersona sulla vita delle popolazioni locali è in realtà devastante dal momento che la loro presenza rende impraticabili all'agricoltura e alla mobilità vasti territori con effetti economici e psicologici enormi. Per non parlare del peso che tutto ciò impone al sistema sanitario e sociale dei paesi più colpiti, le cui condizioni finanziarie, come è facile immaginare, sono spesso drammatiche. Ad esempio il costo degli arti artificiali necessari ad una persona mutilata da una mina viene stimato oggi attorno a 3000 dollari. Se si tiene conto del gran numero di questi invalidi (ad esempio in Cambogia, sul cui territorio si stima che vi siano fra 4 e 7 milioni di mine, una persona su 236 è stata mutilata da una mina), si può avere un'idea delle dimensioni del problema.

I progressi tecnologici hanno, peraltro, molto peggiorato la situazione: l'attuale generazione di mine è costruita con materiali plastici che le rendono estremamente difficili da rivelare con i mezzi più diffusi. Per non parlare delle mine, già disponibili, che contengono sofisticati congegni che le rendono pericolosissime anche da cercare e rimuovere, costituendo così un grave problema anche per le squadre di sminatori professionisti. Gli attuali sistemi di rivelazione, peraltro, hanno un'efficienza che si colloca fra il 60 ed il 90 % per mine che contengono un minimo di metallo: lontano quindi dai livelli richiesti da una bonifica per scopi umanitari. Tutto questo rende lo sminamento difficile, pericoloso e molto costoso.
Il problema finanziario, infatti, è uno dei più gravi. A fronte del fatto che le APM sono ordigni molto poco costosi (da circa 25 $ fino a 3 $ per le più rudimentali) il costo attuale delle operazioni di bonifica è fra i 300 e i 1000 dollari. Esso comprende i costi del materiale, l'addestramento, il mantenimento delle equipes e così via. Negli ultimi anni sono state eliminate, come dicevamo, 100000-200000 mine ogni anno, ad un costo annuale di 70 milioni di dollari.

L'umanità non può permettersi di convivere con questo disastro e le generazioni future non si meritano questa eredità: occorre intervenire con grande determinazione ed efficacia ed occorre farlo subito. È anche evidente che gli sforzi finora profusi sono insufficienti e che occorre un passo in avanti significativo. È opinione di molti scienziati e tecnici interessati al problema del disarmo e del controllo degli armamenti che l'innovazione tecnologica nel campo delle tecniche di individuazione e rimozione delle mine può fornire in questo campo idee e strumenti nuovi per migliorare di uno o due ordini di grandezza la velocità delle operazioni di sminamento civile.

Vorrei soffermarmi in chiusura su questo punto perché su quste ricerche l'Università ed il Politecnico di Bari possono dare e già danno un utile contributo.
I metodi attualmente utilizzati per la rivelazione delle mine depositate sotto il livello terrestre sono essenzialmente due. Il primo è basato sull'olfatto di cani o maiali addestrati a riconoscere mine inesplose: il secondo, utilizzabile solo per mine metalliche, sfrutta le variazioni di campo magnetico generate dalla presenza di masse metalliche nel raggio d'azione del rivelatore.
Altri sensori sono però allo studio. Ricordiamo i sensori ad induzione elettromagnetica; i sensori chimici e biologici artificiali, nei quali le capacità olfattive dei cani vengono studiate in alcuni laboratori con l'obiettivo di ricostruirne artificialmente le capacità di riconoscere vapori particolari; va segnalato poi lo studio dei radar penetranti nel terreno, una tecnica usata da alcuni anni in molte applicazioni civili, ad esempio per rivelare tubi nel sottosuolo, corpi sepolti, vittime di valanghe, cavità sotterranee, ed ora applicata alla rivelazione di mine nascoste nel sottosuolo. Infine voglio ricordare le tecniche di attivazione nucleare: su questa tecnica è iniziato da gennaio di quest'anno un lavoro di ricerca, denominato Explodet, finanziato dall'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e dall'Unione Europea e che vede attivo, tra gli altri, un gruppo di studiosi baresi. Questa tecnica si basa sulla proprietà, comune a tutti gli esplosivi noti, di contenere azoto in concentrazioni elevate (fino al 40%), molto maggiori di quelle presenti comunemente nel terreno, di norma inferiori al 0.1%. Se viene irradiato da neutroni termici, l'azoto passa attraverso una reazione nucleare di cattura radiativa: il neutrone viene assorbito e, immediatamente dopo, viene emesso un raggio gamma monoenergetico, che, una volta identificato, segnala la presenza di esplosivo nel terreno.

Queste ed altre ricerche fanno riferimento nell'Università e nel Politecnico di Bari, per la parte scientifica attorno al Dipartimento Interateneo di Fisica e, per la parte politica, al Centro Interdipartimentale di Ricerche sulla Pace. Con questi strumenti le maggiori istituzioni culturali della nostra città sono quindi in prima fila nell'impegno per la pace e per il disarmo. Va anche segnalata la presenza nell'Università del Corso di Perfezionamento in Politiche e Tecnologie della Pace e del Disarmo, uno strumento per il coinvolgimento di studiosi più giovani, animati dal desiderio di fornire il loro contributo alla causa della pace. Entro un anno questo Corso si trasformerà in Scuola di specializzazione interuniversitaria (in collaborazione con il Politecnico) e doterà le nostre due università di un ulteriore prezioso strumento per lo studio e e le ricerche di nuove tecnologie per la pace ed il disarmo.