L'Irak ed il mondo tra guerra e pace

Giuseppe Nardulli, Università di Bari

A partire dall'agosto 2002 gli Stati Uniti hanno reso evidente l'obiettivo di liquidare il regime di Saddam Hussein. La decisione era implicita nel programma elettorale e soprattutto nella composizione dell'amministrazione di G. W. Bush; gli avvenimenti dell'11 settembre 2001, pur interferendo con questa decisione, non ne sono stati la causa. Gli attentati terroristici hanno ritardato l'azione, giacché sarebbe stato impossibile muovere guerra all'Irak immediatamente dopo l'11 settembre, in assenza di rapporti tra questo paese ed il terrorismo islamico; tuttavia agli occhi di una popolazione americana smarrita e conscia della propria vulnerabilità è apparsa convincente l'immagine di un presidente deciso a liquidare tutti i nemici degli USA. Si spiega così l'incantesimo mediante il quale il presidente ha avuto ragione, almeno sinora, di tutti coloro che negli Stati Uniti ritengono pericolosa ed avventuristica la politica americana verso l'Irak.

L'Amministrazione Bush è divisa al proprio interno e per questo ha mostrato molti tentennamenti nella fase iniziale; successivamente ha rivelato di preferire una guerra condotta da una coalizione internazionale sotto l'egida ONU. Gli USA hanno in questo modo corso il rischio di un rinvio sine die del conflitto; tuttavia, negando all'ONU l'ultima parola, si sono riservati la facoltà di decidere autonomamente tempi e modalità della contesa con l'Irak. Per questo gli scenari di guerra sono stati, almeno fino >alla fine di gennaio 2003, due:

  • una guerra degli USA ed alcuni alleati contro l'Irak;
  • una guerra ancora sostanzialmente diretta militarmente dagli USA, ma con un riconoscimento politico dell'ONU ed una coalizione più ampia.
I due scenari corrispondono alle due correnti dell'amministrazione Bush, gli unilateralisti neoimperiali (R. Cheney, D. Rumsfeld, P. Wolfowitz, R. Perle) da un lato ed i multilateralisti (C. Powell) dall'altro. Queste correnti sono separate da divisioni reali. Per quanto ampi, questi dissensi non mettono però in discussione l'unità sugli obiettivi di fondo specifici della guerra.
A questo punto occorre dire delle parole di verità. La guerra ha un obiettivo economico del tutto evidente e cioè la garanzia di accesso degli USA alle riserve petrolifere irakene e, più in generale, a quelle mediorientali. Sarebbe o sciocco o pretestuoso negare questo obiettivo. Nel Medioriente sono concentrati i due terzi delle riserve mondiali di greggio e l'Irak detiene, dopo l'Arabia Saudita, il secondo posto al mondo tra i paesi con riserve accertate. Secondo varie stime, agli attuali tassi di crescita dei consumi petroliferi, gli effetti della scarsità del greggio cominceranno a farsi sentire già intorno al 2011[1]: il controllo delle riserve petrolifere sarà allora un fattore decisivo di supremazia a livello regionale e globale. L'importanza del Medioriente e delle sue immense riserve petrolifere è stata ben chiara agli USA fin dalla fine della seconda guerra mondiale. Risale infatti a quegli anni l'alleanza strategica tra gli Stati Uniti d'America e la monarchia saudita[2]. Essa ha fornito alla debole ed impopolare casa reale un appoggio politico e militare decisivo e ha garantito agli USA, come contropartita, il libero accesso ai giacimenti della penisola araba. Poiché l'Arabia Saudita non è in grado da sola di garantire la stabilità regionale, dagli anni quaranta fino agli anni settanta del novecento gli Usa hanno governato il Medioriente indirettamente, tramite la Gran Bretagna e soprattutto mediante la monarchia dei Pahlavi in Persia. Dopo la caduta dello Shah ed il trionfo della rivoluzione islamica di Khomeini in Iran nel 1979, gli Usa hanno progressivamente assunto responsabilità politico-militari in prima persona, con un duplice obiettivo: impedire l'intromissione dell'URSS ed ostacolare la nascita di potenze regionali ostili. Per otto anni, durante la prima guerra del Golfo tra Irak ed Iran hanno utilizzato le ambizioni di Saddam Hussein in funzione antiraniana e, per questo, hanno rifornito il dittatore irakeno di armi e mezzi finanziari. Ma ben presto è apparsa chiaro il rischio che Saddam Hussein finisse per controllare l'intera regione mediorientale, ed i progetti di Saddam sono entrati in rotta di collisione con il controllo americano del Medioriente. Oggi, la liquidazione del regime Baath in Irak e la sua sostituzione con un altro formalmente democratico e smilitarizzato è un passaggio obbligato per gli Stati Uniti. Per questo le ragioni economiche della guerra non contraddicono le dichiarazioni del governo USA. Infatti un Irak dotato di armi moderne e potenti può rappresentare una minaccia, non per l'umanità ovviamente, ma per le truppe USA nell'area mediorientale e per gli alleati USA di quest'area (Israele ed Arabia Saudita principalmente). E d'altro canto se l'Irak fosse una democrazia non ci sarebbe bisogno di fare una guerra, basterebbe sostenere politicamente ed economicamente l'opposizione irakena, seguendo un copione ben noto: pensiamo alla liquidazione del governo del primo ministro Mossadeq nel 1953 in Iran o alla campagna attuale per liberarsi del Presidente Chavez in Venezuela, per citare altri due esempi di paesi i cui governi sono entrati in rotta di collisione con gli interessi petroliferi degli Stati Uniti.
Negare che l'obiettivo sia il petrolio porrebbe, d'altra parte, interrogativi davvero inquietanti. Se l'obiettivo fosse principalmente l'eliminazione di una dittatura, occorrerebbe, per essere conseguenti, auspicare una terza guerra mondiale tra due schieramenti: l'Occidente democratico da un lato e dall'altro, cito a caso, Cina, Arabia Saudita (monarchia assoluta, più esattamente), Etiopia, Cuba, Corea del Nord, Siria, Irak, Iran, Pakistan, Libia, etc., etc. Se invece l'obiettivo fosse solo disarmare chi possiede armi di sterminio di massa occorrerebbe includere tra i nemici India ed Israele. Se il discrimine fosse la mancata applicazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU certamente si potrebbe pensare di affiancare all'Irak (una dozzina di violazioni) anche Israele (32 violazioni a partire dalla risoluzione 256 sullo statuto di Gerusalemme), la Turchia (24 violazioni, a partire dalla 353 del 1974 sul rispetto della sovranità dell'indipendenza e dell'integrità territoriale di Cipro fino all'ultima, la 1416 del 2002, sullo stesso argomento) e il Marocco (16 violazioni sul Samara Occidentale), per non parlare di altri Stati con un numero di violazioni inferiori[3]. Se infine il criterio da seguire per decidere chi mettere al bando nella comunità internazionale fosse l'uso di armi di distruzione di massa contro civili innocenti i giapponesi potrebbero pensare agli USA che hanno addirittura raso al suolo due loro città con armi nucleari.
Il significato di questa reductio ad absurdum non è ovviamente negare che il regime di Saddam Hussein sia pericoloso e vada contenuto, bensì provare che si smarrisce il necessario orientamento se si pensa che questa guerra sia combattuta solo o principalmente per i motivi che gli USA dichiarano. È spesso più conveniente politicamente per chi aggredisce nascondere i propri obiettivi dichiarando di essere mossi da ideali alti e nobili; tuttavia, come la maggior parte delle guerre, il conflitto con l'Irak ha ragioni molto terrene ed occorre comprendere le ragioni più profonde che si trovano al di sotto delle apparenze mutevoli ed ingannatrici.

Il controllo delle riserve petrolifere mediorientali è solo un elemento della grande strategia che negli ultimi mesi l'amministrazione del giovane Bush ha svelato al mondo: gli altri sono la lotta al terrorismo e la formazione di un impero mondiale de facto governato unilateralmente da Washington, per usare una immagine ormai ricorrente nel mondo politico americano ed europeo. In un articolo[4] John Ikenberry ha così riassunto gli elementi principali di questa strategia. L'impegno prioritario degli USA è di mantenere il carattere unipolare che il mondo ha assunto dopo la fine della guerra fredda e di impedire la nascita di un nuovo competitore globale paragonabile all'Unione Sovietica. Con la dissoluzione dell'URSS, la superiorità economica, tecnologica, politica, militare e culturale degli USA è schiacciante. In alcuni campi essa può essere sfidata: ad esempio la Russia ha ancora la possibilità ipotetica di distruggere gli USA con un bombardamento nucleare, l'Europa Unita potrebbe nel medio periodo conquistare il primato economico, la Cina si avvia a divenire, in termini quantitativi la più grande economia nazionale del pianeta. Tuttavia la supremazia USA appare al momento indiscutibile principalmente perché essa si basa non su di una singola posizione di eccellenza, ma su una combinazione di primati.
L'ambizione al primato globale è in realtà una costante della politica estera USA dalla fine della seconda guerra mondiale. Appare tuttavia originale l'approccio di questa amministrazione che sottolinea l'aspetto militare del primato, come dimostra non solo il documento ufficiale del settembre 2002 The National Security Strategy of the United States, ma anche e soprattutto l'aumento delle spese militari realizzato nell'ultimo anno. Un secondo elemento di novità appare nell'analisi della minaccia che, a differenza che nel passato, non viene identificata con precisione; con le parole di D. Rumsfeld, segretario alla difesa, "vi sono cose che sappiamo di sapere e cose che sappiamo di non sapere, ma i pericoli vengono dalle cose che non sappiamo di non sapere".

L'elemento di novità che più ha colpito gli osservatori è la nozione di attacco preventivo: la nuova Amministrazione dichiara che in futuro non attenderà di essere aggredita, ma attaccherà preventivamente i suoi nemici. Si osservi bene: quello che qui si sostiene non è l'idea che gli USA, nell'imminenza di un attacco, possano anticipare l'avversario attaccando per primi. In inglese si parlerebbe, in questo caso di preemptive strike, attacco d'anticipo potremmo tradurre noi. Anche se il già citato documento sulla sicurezza nazionale afferma che "the United States will, if necessary, act preemptively", l'idea è diversa: si tratta, come ha fatto notare il senatore E. Kennedy, di un preventive strike, cioè di un attacco preventivo fatto in assenza di un comportamento apertamente minaccioso. Per usare di nuovo le parole di Rumsfeld, non si può attendere di vedere uscire il fumo dalla canna del fucile per avere le prove che è stato sparato un colpo: potrebbe essere troppo tardi, e, quindi, è meglio intervenire prima. È utile osservare che questa teoria, che vediamo oggi messa alla prova in Irak, abbandona il vecchio concetto strategico della dissuasione, o deterrenza; la dissuasione implicava la necessità di un atteggiamento minaccioso e di armamenti adeguati per dissuadere l'avversario dall'attacco, ma non prevedeva l'idea di attacchi preventivi. La logica interna della nuova dottrina è ferrea, ma, come tutte le idee estremistiche, provocherebbe, se applicata, conseguenze indesiderate assai gravi. Infatti innanzitutto essa potrebbe essere fatta propria da altri paesi, non necessariamente ostili agli USA: chi negli USA potrebbe dichiarare illegittimo un attacco dell'India al Pakistan se esso fosse motivato da una teoria analoga a quella di Rumsfeld? E questo è solo uno dei tanti esempi che si possono immaginare. L'insieme delle relazioni internazionali salterebbe in aria e la risoluzione armata dei conflitti tra stati diventerebbe la norma: un futuro da incubo. Ma c'è di più: appare chiaro che la strategia dell'attacco preventivo si può adottare solo se la dottrina della dissuasione è inapplicabile, ossia solo in presenza di un rapporto di forze estremamente favorevole a chi attacca preventivamente. Il presidente Reagan parlava negli anni ottanta del secolo scorso di impero del male a proposito dell'URSS, così come il giovane Bush parla di asse del male a proposito di Irak, Iran e Corea del Nord. Ma Reagan non ha mai pensato seriamente di attaccare l'URSS perché sapeva che la risposta nucleare dell'URSS sarebbe stata devastante. Oggi la strategia dell'attacco preventivo rappresenta un incentivo per tutti i paesi potenzialmente ostili agli USA a dotarsi di armi nucleari, qualora già non le possiedano, o a rafforzare il proprio dispositivo nucleare in caso contrario. Questi sviluppi non sono ipotetici, ma del tutto realistici, come mostra la vicenda della Corea del Nord, che si dipana proprio in queste settimane.

Un'altra conseguenza logica della nuova strategia è la messa in discussione del concetto di sovranità nazionale: la sovranità diventa condizionata, nel senso che chi non si adegua alla nuova situazione internazionale perde il diritto alla sovranità sul suo territorio, si tratti di paesi che proteggono i terroristi, come l'Afghanistan, o paesi con armi di distruzione di massa, come l'Irak. Si tratta, è evidente, di un insieme di nuove regole che mandano all'aria tutto il sistema di relazioni internazionali attuali, ma, anche in questo caso, si tratta di una conseguenza logica. Se gli stati non sono a priori sovrani, allora perdono molto del loro valore strumenti giuridico-politici quali i trattati internazionali, le alleanza internazionali, e così via. L'amministrazione Bush mostra infatti una totale idiosincrasia nei confronti dei trattati, sia quelli riguardanti gli armamenti (si pensi all'abbandono del trattato ABM contro i missili antimissile o alla posizione sulla Convenzione sulle Armi Biologiche) sia quelli di altra natura (si pensi al protocollo di Kyoto sul riscaldamento globale o al trattato istitutivo della Corte Criminale Internazionale). Allo stesso modo le alleanze militari, tipico strumento di accordo tra stati sovrani, perdono di interesse: per citare ancora Rumsfeld, "è la missione che determina la coalizione, non è la coalizione che determina la missione". In altri termini gli USA non intendono farsi condizionare dai propri alleati, ma decidono di volta in volta, a seconda degli obiettivi, con chi formare una coalizione militare.

Al fondo di questa strategia vi è una visione cupa dei rapporti internazionali: la sicurezza USA non può essere assicurata dallo sviluppo dei commerci, dall'estensione dei valori democratici e dei diritti umani e neanche da un bilanciamento di forze tra i vari paesi: l'unica garanzia è la supremazia militare indiscussa degli Stati Uniti. Si possono ovviamente trovare molte anticipazioni di questa strategia nel passato, ma si tratta davvero di una visione nuova del mondo. L'approccio internazionalista liberal di un W.Wilson o di un Clinton, che pure prevedeva l'uso della forza, usava motivazioni diverse, ad esempio il rispetto dei diritti umani: si pensi alla guerra del Kosovo. L'approccio realista di un T. Roosevelt o di un Kissinger si fondava sulla dottrina del balance of power. Gli ideologi neoreganiani che hanno conquistato il potere a Washington hanno una concezione nuova del mondo e dei rapporti internazionali e vogliono metterla alla prova nei prossimi mesi e anni. Si tratta di una strategia ambiziosa, che appare non solo ai nemici degli USA, ma anche a molti suoi alleati, un straordinaria dimostrazione di arroganza. Essa si basa però su solide basi economiche, politiche, culturali,tecnologiche e militari. Dunque, sarebbe un errore sottovalutare le ambizioni neo-imperiali di Washington ed un crimine assecondarle.

Bari, 31 gennaio 2003

[1] Ciò non vuol dire che il petrolio scarseggerà tra 10 anni; tuttavia la crescita della domanda mondiale e la riduzione progressiva dei giacimenti renderanno più difficile soddisfare le esigenze di consumo ben prima che i giacimenti siano esauriti. Questa visione pessimistica sull'offerta di greggio è contenuta ad esempio in James J. MacKenzie, Headiong Off the Permanent Oil Crisis Issues in in Science and Technology, Summer 1996, p. 48. Si veda anche C. J. Campbell and J. H. Laherrère, The End of Cheap Oil, Scientific American, March 1998, p. 78 (tr. ital. Le Scienze, maggio 1998, p. 78).
[2] Una interessante ricostruzione dei rapporti tra USA ed Arabia Saudita è in M.T. Klare, Resource Wars, New York 2002.
[3] Una analisi delle violazioni delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è stata svolta da S. Zunes, e ripresa in Le Monde Diplomatique, Dicembre 2002, p.22.
[4] G.John Ikenberry, America's Imperial Ambition Foreign Affairs, September/October 2002, p.44.