Tesi sulla guerra afgana e sul terrorismo

Giuseppe Nardulli
Documento per il workshop USPID, Pisa 12-13 gennaio 2002

La rapidità del successo degli USA nella guerra contro i Taliban è stata impressionante. Ha colto di sorpresa molti esperti. Per fare un solo esempio, J. Mearsheimer, in un articolo sul New York Times del 4 Novembre scorso, ipotizzava una invasione con truppe terrestri e notava l'impossibilità di ottenere questo risultato giacché gli USA non avevano (e non hanno) basi terrestri sul teatro delle operazioni. Sempre secondo Mearsheimer, per tenere l'Afghanistan occorrono almeno 500,000 uomini (5 volte il numero di effettivi impiegati dall'URSS durante l'occupazione degli anni ottanta). Date queste condizioni proibitive, Mearsheimer ipotizzava una lunga guerra fatta di spionaggi e corruzione per portare i war-lord locali dalla parte degli USA. Nulla di tutto ciò è stato necessario e nel giro di poche mesi il regime Taliban è crollato. Ciò mostra a mio parere innanzitutto quanto esso fosse fragile, uno schermo sottile dietro il quale si celava un paese senza governo e senza stato, diretto da signori della guerra e da gruppi tribali locali. È stato ampiamente documentato (si veda ad esempio il libro di Ahmed Rashid, recentemente tradotto anche in italiano) che la nascita del regime Taliban è una invenzione dei servizi segreti pakistani (ISI). I Taliban sono stati sorretti dal Pakistan perché, secondo l'opinione delle sue forze armate, avrebbero potuto fornire a quel paese, la necessaria profondità strategica nei confronti dell'India, caratteristica che per ragioni geografiche il Pakistan non ha e che veniva ritenuta essenziale. Oltre a questo, i campi di Al Qaeda in Afghanistan garantivano l'addestramento e le basi logistiche per la guerriglia separatista del Kashmir. Si comprende quindi come, venuto meno tale appoggio, il regime Taliban sia crollato come un castello di carte. Un altro paese che ha sorretto a lungo i Taliban è stato l'Arabia Saudita, non solo attraverso il ruolo delle forze militari di Osama Bin Ladin, ma anche con aiuti economici e logistici diretti. La ragione di questo appoggio va ricercata in una costante della politica estera della monarchia saudita, cioè il sostegno a tutte le iniziative di diffusione del wahhabismo, la particolare setta sunnita dominante a Ryadh. Politica fallimentare quanto poche altre, se si tien conto che i movimenti estremisti finanziati dalla monarchia saudita si sono regolarmente schierati contro i loro benefattori nei momenti di crisi, ad esempio durante la guerra del Golfo che vide l'Arabia Saudita opporsi all'Irak.

La rapidità della vittoria americana è dovuta alla combinazione di due fattori: uso massiccio dei bombardamenti aerei ed assistenza militare all'Alleanza del Nord. Il vantaggio per gli USA di questa strategia è il basso numero di perdite tra le forze armate americane. Il rovescio è la rinuncia a controllare l'Afghanistan. Tutto ciò può comportare un prezzo da pagare e cioè che l'eliminazione delle sacche di resistenza dei Taliban e Al Qaeda potrebbe richiedere molto tempo. Un altro aspetto negativo è che gli USA sono costretti a fidarsi dei loro momentanei alleati. Ma si tratta di alleati incerti ed infidi, che nel passato si sono combattuti violentemente tra di loro e che più di una volta hanno cambiato campo e schieramento. Gli uzbeki e gli hazara hanno massacrato negli anni della guerra civile, prima del 1996, centinaia di Taliban e ucciso abitanti dei villaggi pashtun attorno a Kabul; lotte continue ci sono state tra le varie fazioni. Sulla governabilità dell'Afghanistan nei prossimi anni pesa poi la questione dell'oppio. Controllo del territorio significa infatti controllo delle piantagioni, che negli anni passati hanno rappresentato una forma di entrata sicura per chi poteva imporre le tasse su coltivazione e commercio. L'Afghanistan ha prodotto tra il 1992 ed il 1995 ogni anno tra le 2200 e le 2400 tonnellate metriche di oppio, divenendo il primo paese produttore al mondo. Nel 1997 questo numero era salito a 2800 tonnellate. Nel 1996 nella sola provincia di Kandahar si producevano 120 tonnellate su 3160 ettari coltivati a papavero. Vale la pena di ricordare che gli effetti destabilizzanti sugli stati vicini sono stati drammatici. Il Pakistan, che non aveva fino al 1979 tossicodipendenti, ne contava 650,000 nel 1986, 3 milioni nel 1992 e 5 milioni nel 1999. In Iran il numero ufficiale di tossicodipendenti era di 1,2 milioni nel 1998, ma, secondo Rashid, il numero reale dovrebbe aggirarsi sui 3 milioni, nonostante gli sforzi compiuti negli anni da Teheran per contrastare il fenomeno (dal 1980 vi sono state perdite per oltre 2500 uomini da parte dell'Iran al confine con l'Afghanistan nel tentativo di contrastare il traffico delle droghe).

La vittoria in Afghanistan non conclude la guerra contro il terrorismo, tuttavia essa va necessariamente circoscritta. Nei campi di Al Qaeda sono stati addestrati negli anni decine di migliaia di combattenti islamici, che si sono ritrovati in Bosnia, in Cecenia, nello Yemen e in molti altri punti di crisi. A tutti loro è ben nota la frase con cui Maometto spronò i suoi fedeli alla battaglia contro i suoi avversari: "Tra voi e il Paradiso ci sono solo i vostri nemici". Non c'è da illudersi che la partita sia conclusa, né si può abbassare la guardia. D'altro canto un importante risultato è stato raggiunto. Una rete di organizzazioni terroristiche che agiva con la protezione di una autorità statuale si trova ora ad operare in clandestinità e con enormi difficoltà logistiche. E questo rappresenta la grande differenza sotto l'aspetto della sicurezza dei cittadini degli USA e dei paesi alleati agli americani. Si tratta però di evitare di compiere azioni che aggravino la situazione e sortiscano effetti contrari a quelli desiderati. Tra le azioni da evitare c'è quella di presentare questo conflitto come uno scontro di civiltà, come incautamente ha fatto il primo ministro italiano, quando non era ancora ministro degli esteri. Occorre inoltre circoscrivere l'azione per evitare che la situazione politico-militare sfugga ad ogni controllo, cosa che potrebbe succedere in tanti modi, il più evidente dei quali è una nuova guerra indo-pakistana. Sarebbe opportuno, per delimitare l'azione rinunciare alla retorica della guerra del bene contro il male. Ovviamente il cordoglio per le vittime del terrorismo è fuori questione, ma, proprio per questo non ha bisogno di retorica. Il giudizio sul terrorismo non si deve basare su ragioni morali. Il terrorismo è infatti una costante della storia. È una forma di lotta a metà tra la guerra e la politica: pensare di eliminarlo è illusorio. A seconda dei punti di vista si può essere terroristi o patrioti come dimostra la vita del primo ministro israeliano Begin. La discriminante tra essere o non essere terroristi non è la pietà verso la popolazione civile, altrimenti come giudicare i bombardamenti americani su Nagasaki e Hanoi? Il terrorismo è lo strumento di guerra che generalmente adopera chi ha mezzi limitati. Dipende dalle scelte politiche far uso di questo strumento o rifiutarsi di farlo. Per fare un esempio importante, le forze progressiste di ispirazione socialista ed anticoloniale hanno sempre rifiutato il terrorismo perché ritenevano che esso fosse controproducente rispetto agli scopi del movimento, perché non ne allargava i confini, ma, al contrario, lo isolava dalle grandi masse. Dunque, il giudizio sul terrorismo non può che essere politico. La distinzione tra politica e morale rende possibile la mediazione politica ed anche una autolimitazione nella propria azione, cose che sono invece difficili da giustificare se il nemico è visto come pura negatività. Gli obiettivi degli USA dovrebbero quindi essere circoscritti, limitarsi alla difesa degli interessi nazionali e tentare di rispondere alle seguenti domande: Quanto è utile e quanto è necessaria la presenza di truppe USA nel Golfo? Occorre occuparsi dei separatisti del Kashmir, della Cecenia o delle Filippine? Analoga valutazione dovrebbero fare i paesi europei se riuscissero a superare il loro balbettio e convincersi che alla politica estera stile jet-set di Blair sarebbe preferibile la vecchia e tradizionale diplomazia che si muove avendo chiaro il rapporto tra fine e mezzi.
Vi sono molti interessati a non circoscrivere il conflitto. Spingono per l'allargamento quelli che ritengono giunta l'occasione per liberarsi dei propri nemici: ad esempio Israele che potrebbe ritenere opportuno spingere gli USA ad un attacco contro l'Irak o l'India che potrebbe ritenere giunto il momento di chiudere la partita con i separatisti del Kashmir. In questo contesto non nascondo un serio timore sull'autonomia politica dell'amministrazione Bush nei confronti dello schieramento economico e sociale che ne ha permesso l'elezione; in esso gioca un ruolo significativo l'industria bellica la quale si aspetta ricompense in termini di investimenti ed aumento di spese militari. Di tutto ciò si vede traccia nell'aumento del bilancio della difesa fatto approvare dall'amministrazione americana, oltre che in stravaganti e destabilizzanti programmi militari (il programma di difesa antimissile). Queste forze interne agli USA, assieme ad altre più motivate politicamente, spingono per l'allargamento del conflitto innanzitutto nei confronti dell'Irak: va detto chiaramente in tutte le sedi, persino da un paese ininfluente e senza politica estera come l'Italia, che un tale esito avrebbe un carattere catastrofico e dagli esiti imprevedibili.

I radicalismo islamico è alimentato e non ostacolato dalla presenza USA in Arabia Saudita. La guerra dichiarata dagli USA al terrorismo è rivolta contro le organizzazione terroristiche legate al radicalismo islamico. Le ragioni di questo terrorismo erano sufficientemente note già alcuni anni fa e sorprende quindi che esso abbia potuto colpire l'11 settembre in modo tanto inatteso. Segnali ce n'erano stati parecchi, ricordiamo ad esempio l'attentato a Ryadh del 13-11-95 nel quale persero la vita 5 americani e 30 rimasero feriti, oppure l'attentato del 25-6-96 a Dahran, che vide 100 feriti e 19 militari USA uccisi. Particolarmente interessante risulta rileggere oggi un articolo pubblicato il 23-2-1998 sul giornale in lingua araba Al-Quds al-Arabi di Londra. Questo articolo fu analizzato in maniera magistrale da Bernard Lewis sul numero di Foreign Affairs del novembre dello stesso anno. L'articolo su Al-Quds al-Arabi si intitola "Dichiarazione del Fronte Islamico Mondiale per il Jihad contro gli Ebrei e i Crociati" e porta la firma di Usama bin Ladin e di alcuni altri leader di gruppi militanti islamici di Egitto, Pakistan e Bangladesh. La dichiarazione rende noti i motivi dell'ostilità e della chiamata al jihad.
"Primo: Da più di 7 anni gli Stati Uniti occupano le terre dell'Islam nel più sacro dei suoi territori, l'Arabia, saccheggiano le sue ricchezze, umiliano il suo popolo, minacciano i suoi vicini e usano le sue basi nella penisola come la punta di una lancia per combattere contro i popoli islamici confinanti. Sebbene nel passato la vera natura di questa occupazione sia stata oggetto di discussione, oggi la gente d'Arabia, nella sua totalità l'ha compresa. Non c'è infatti prova migliore di questa natura della perdurante aggressione americana contro il popolo irakeno, aggressione che parte dall'Arabia nonostante il parere dei governanti di questo paese, che si oppongono all'uso del loro territorio per questo scopo, ma sono impotenti. Secondo: nonostante l'immensa distruzione inflitta al popolo irakeno da parte dell'alleanza di ebrei e crociati e nonostante il gran numero di morti, più di un milione, gli americano continuano nel loro massacro. Sembra che il blocco economico che ha fatto seguito alla guerra sanguinosa non sia sufficiente; dunque essi continuano oggi a distruggere quello che resta di questo popolo e ad umiliare i vicini islamici. Terzo: Mentre gli scopi degli americani in queste guerre sono religiosi ed economici, essi risultano anche utili per il piccolo stato d'Israele, per distogliere l'attenzione dalla loro occupazione di Gerusalemme e l'uccisione dei musulmani. Non c'è prova migliore di tutto ciò dello zelo mostrato nella distruzione dell'Irak, il più forte tra i paesi arabi confinanti e del loro tentativo di smembrare tutti gli stati della regione dall'Irak all'Arabia Saudita dall'Egitto al Sudan e trasformarli in staterelli la cui divisione e debolezza assicurerebbero la sopravvivenza di Israele e la continuazione della funesta occupazione delle terre arabe da parte dei crociati." Poiché questi crimini - prosegue la dichiarazione - rappresentano una dichiarazione di guerra contro Dio, il suo Profeta e i musulmani, in tali circostanze, nel corso dei secoli, gli ulema (autorità religiose) hanno unanimemente decretato che quando i nemici attaccano le terre dei musulmani il jihad è dovere personale di ogni musulmano.
Come fa notare Lewis è interessante non tanto l'elenco delle ragioni della lotta contro gli Usa, quanto l'enfasi sulle diverse cause. Al primo posto viene la profanazione dei luogo più sacro, l'Arabia, là dove il profeta ha agito e operato; al secondo posto viene l'Irak, là dove ebbe sede il califfato per circa 500 anni, fino alla caduta di Baghdad ad opera dei Mongoli. Solo al terzo posto viene la questione di Gerusalemme. Infatti secondo Lewis non c'è paragone alcuno tra l'importanza che rivestono l'Arabia e Gerusalemme per un Arabo. 20 anni dopo la hijra, cioè nel 641, il Califfo Umar decretava l'espulsione di ebrei e cristiani dall'Arabia per ottemperare alle parole del profeta secondo cui non avrebbero dovuto esserci due religioni in Arabia. E così furono espulse minoranze religiose che per secoli avevano vissuto in Arabia. A questo principio si sono sempre ispirate le autorità religiose arabe. Non così si comportarono invece quando nel 1099 la prima crociata conquistò Gerusalemme. L'evento suscitò poco interesse nel mondo islamico. Ciò che spinse il leader islamico Saladin alla riconquista di Gerusalemme furono le azioni di brigantaggio condotte da un signore cristiano Rinaldo di Chatillon che dalla fortezza di Kerak attaccava a scopo di bottino le carovane sul suolo arabo alla fine del XII secolo. Eliminato questo predone, gli Arabi persero ogni interesse per Gerusalemme. Al punto di cederla senza combattere all'imperatore Federico II che ne divenne re nel 1299. Dopo essere tornata in mani musulmane nel 1244, la città cadde nell'oblio fino ai tempi moderni.

Il fanatismo religioso è alimentato dai regimi amici degli USA in Medioriente. Questa discussione ci porta quindi ad approfondire questo punto: con quali occhi viene vista la presenza americana in Medio Oriente? Come viene ricordato nel numero del novembre 2001 di Foreign Affairs da F. Ajami, l'11 settembre tra gli esponenti delle classi alte egiziane c'era un inconfondibile senso di gioia e molta poca tristezza per la tragedia che aveva colpito gli USA e questo in un paese da lungo tempo (30 anni) vicino agli Stati Uniti. Si sa di festeggiamenti in Arabia Saudita all'arrivo della notizia (ne abbiamo avuta eco nel famoso Video di Bin Ladin e dello sceicco Saudita). Dopo il 12 ottobre 2000, giorno in cui due uomini con un piccolo natante attaccarono la nave americana Cole la reazione osservata da un giornalista del New York Times, J. Burns nello Yemen fu di stupore, talora soddisfazione ed anche piacere. Ma non c'è da stupirsi di ciò. Più è filoamericano il regime, osserva Ajami, più antiamericana la classe politica, la quale utilizza l'antiamericanismo come valvola di sfogo di un malcontento popolare che altrimenti si rivolgerebbe contro le elites al potere. È utile notare che l'antimericanismo ideologico si accompagna ad un ruolo da borghesia compradora che vede queste elites tra i maggiori acquirenti di armamenti USA (l'Arabia Saudita ha acquistato dagli USA negli anni novanta circa 40 miliardi di dollari in armamenti sofisticati); è proprio questa miscela, a mio parere che impedisce a questi paesi arabi-musulmani di entrare nella modernità. Particolarmente significativa è questa manipolazione in Arabia Saudita, paese da cui, non dimentichiamolo, proveniva la maggior parte degli attentatori dell'11 settembre (15 su 19). In questo paese la legittimizzazione della monarchia saudita viene dalla sua alleanza con gli ulema della setta wahhabita. Per garantire questa alleanza per decenni i sauditi hanno finanziato i gruppi estremisti islamici e tentato di espandere il wahhabismo, spesso in furiosa concorrenza con l'attivismo degli sciiti vicini all'Iran. Altrettanto significativo è il caso dell'Egitto. Qui la crescita del radicalismo islamico è legata, secondo l'analisi di S. Yassin (in Herodote, 77, 1995) al fallimento del grande progetto nazionale arabo sconfitto nel 1967, dopo la guerra dei 6 giorni. Questa sconfitta ebbe un impatto profondo sul mondo arabo: non solo sconfitta militare, ma una vera e propria catastrofe politica, la morte di un progetto in cui tutti nel mondo arabo avevano creduto. Le popolazioni arabe compresero che il progetto nazionale arabo non era capace di mantenere nessuna delle sue promesse: liberazione, indipendenza, giustizia sociale, sviluppo sociale, unità araba e capacità di resistere alla sfida lanciata dagli aggressori occidentali. "Oggi gli islamici dicono ai laici: avete fallito due volte, la prima durante il periodo liberale, la seconda nel periodo socialista: proviamo dunque con l'Islam". Il secondo tornante è rappresentato dalla fine dello stato nasseriano e l'avvento del multipartitismo e del liberalismo con Sadat, il quale concede l'amnistia ai membri dei Fratelli Musulmani detenuti e cerca di utilizzare il radicalismo di questa antica organizzazione islamica in chiave antinasseriana. Ciò ci porta all'ultima di queste tesi.

Tantum religio potuit suadere malorum. Molti hanno tentato di usare la carta del fanatismo religioso per scopi politici: i sauditi in Afghanistan, Pakistan, Algeria, Cecenia con i risultati che abbiamo già ricordato; Sadat, che ci ha rimesso la vita; gli americani in Afghanistan durante l'occupazione sovietica e sono stati ripagati l'11 settembre. Particolarmente controproducente è stata questa politica per i pakistani che, per ragioni squisitamente politiche, crearono un imponente movimento islamico appoggiandosi alle madrasse della setta Deobandi in Pakistan durante la dittatura del generale Zia-Ul-Hak, allo scopo di contrastare i sovietici in Afghanistan negli anni ottanta. Oggi i successori di Zia-Ul-Hak si trovano a fronteggiare una crisi senza precedenti che li trova privi di retroterra e con una situazione interna esplosiva. Il verso di Lucrezio con cui si apre quest'ultima tesi ci ammonisce, con la saggezza degli antichi, che i fondamentalismi religiosi, da quello islamico a quello dei partiti religiosi al potere in Israele, da quello degli evangelici nordamericani a quelli cattolico o slavo-ortodosso costituiscono una eredità con cui l'umanità non può permettersi di convivere.

Addendum (13 febbraio 2002)

La guerra intrapresa dagli USA contro i Taliban avrebbe potuto proseguire, dopo la caduta del regime di Kabul, in due modi. Una prima opzione era costituita dal consolidamento del nuovo equilibrio politico a Kabul, da un intervento sulle cause che alimentano l'instabilità nel mondo islamico (presenza USA nel Golfo, conflitto arabo-israeliano) e da un approfondimento delle misure preventive e di vigilanza (spionaggio, controlli aeroportuali) nei confronti del terrorismo internazionale. La seconda opzione era quella della soluzione prevalentemente militare, mediante l'allargamento della base delle operazioni e l'ampliamento del numero degli obiettivi militari. È evidente che l'amministrazione Bush ha scelto questa seconda strada, anzi, con il discorso sullo stato dell'Unione di Bush del gennaio scorso, essa sembra aver deciso di impegnarsi nei prossimi anni in una nuova guerra mondiale, con modalità per ora ancora oscure. L'obiettivo non è più solo la rete di al-Qaeda, ma gli stati canaglia, per ora identificati esplicitamente in Irak, Iran e Corea del Nord, anche se questi paesi non hanno avuto alcun ruolo negli attentati dell'11 settembre ed anzi, in un caso, l'Iran, si tratta di un paese che ha osteggiato il regime Taliban.

È difficile prevedere dove condurrà questa linea di politica estera e sono lecite le previsioni più pessimistiche: infatti questa svolta costituisce un incentivo per il governo Sharon a cercare una soluzione militare anziché una soluzione politica per il conflitto palestinese; rischia di incrinare i rapporti con gli alleati; favorisce una deriva militaristica e unilateralista degli USA i cui prezzi saranno inevitabilmente pagati prima o poi dal popolo americano. Soprattutto mi pare che questa nuova politica, smisuratamente ambiziosa e deprecabilmente arrogante, fornisca argomenti ed incentivi a chi ritiene che gli USA siano un nemico da combattere con ogni mezzo, anche con le stragi. Se le tesi sostenute in questo intervento hanno un qualche fondamento, il risentimento nei confronti degli USA ha cause assai profonde e la nuova politica di Bush avrà come effetto quello di farlo crescere ulteriormente.