Ricerca scientifica, ricerca militare, nuove tecnologie

Giuseppe Nardulli
Università di Bari

Il dibattito avviato su questa rivista sui caratteri odierni della comunità tecnico-scientifica e sull'impatto sociale delle nuove tecnologie risponde ad una esigenza di discussione largamente condivisa. È evidente infatti la onnipresenza di scienza e tecnica nelle nostre società, una caratteristica che lo sviluppo delle telecomunicazioni negli ultimi anni ha ulteriormente accentuato. Prende allo stesso tempo sempre più corpo un fenomeno solo apparentemente paradossale, e cioè che la crescita di consumi ad alto contenuto tecnologico si accompagna ad un perdurante analfabetismo scientifico ed al fiorire di nuovi fenomeni irrazionalistici e di rifiuto del pensiero razionale. Ci si aspetterebbe che la società contemporanea, così fortemente segnata dall'impatto della tecnologia, si liberasse delle vestigia di un pensiero pre-scientifico e pre-moderno. Così non è, però, e, come dicevo, il paradosso è solo apparente. Difatti assenza di spirito critico e razionalità sono la condizione necessaria attraverso le quali le nostre società, democratiche sotto il profilo giuridico, quindi formalmente a sovranità popolare, possono reggersi su di una struttura di potere gerarchica e fortemente ineguale, che delega i poteri sostanziali ad elites selezionate. Solo l'assenza di pensiero critico permette di accettare le tante irrazionalità che le cronache quotidianamente ci presentano e che affliggono il pianeta alla fine di questo secolo. Solo l'incapacità di operare razionalmente consente a ciascuno di noi di subire il ruolo di consumatori passivi di beni spesso inutili, quando non dannosi. L'inesistenza di una pensiero critico e razionale appare quindi l'altra faccia della società dei consumi e del capitalismo maturo, uno strumento di dominio antico nella sostanza, ma moderno negli strumenti di persuasione occulta e di manipolazione delle coscienze.
Il perdurare, anzi l'aggravarsi di questo stato di cose indica forti responsabilità del mondo politico e della comunità scientifica. Il primo per l'assenza di ogni tentativo serio di governare questi fenomeni, per la mancanza di una politica che riqualifichi la scuola, fuori dalle mode e dell'accecamento consumistico per i computer e l'informatica. La seconda per il continuo e persistente disinteresse nei confronti del tema cruciale della diffusione di una cultura scientifica di massa, che dia a ciascuno gli strumenti minimi per comprendere e per giudicare. Si tratta di temi decisivi, sui quali è già intervenuto nello scorso numero de Il Ponte Pier Giovanni Pelfer e che altri, mi auguro, riprenderanno.

Le questione che vorrei però affrontare in questo scritto è diversa; vorrei introdurre nel dibattito il tema del nesso scienza e potere militare, più precisamente quello del rapporto tra ricerca scientifica e ricerca militare. Non si tratta di un tema esotico, anche se potrebbe apparire tale nel nostro paese, dove le questioni di politica militare, e non solo quelle scientifiche, sono considerate di scarso interesse da parte del mondo politico e giornalistico. Infatti nel seguito intendo sostenere le tesi seguenti:

  • La ricerca scientifica di carattere militare ha, nel complesso, un ruolo di primo piano. Non esiste nessun altro settore della ricerca scientifica nei paesi più industrializzati in cui l'intervento statale abbia peso maggiore. Non ha senso discutere sul ruolo e la responsabilità della scienza senza affrontare questo tema.
  • Gli effetti della ricerca scientifica di carattere militare sono molteplici ed è particolarmente significativo il suo impatto sull'economia. Il segno di questa influenza è ambiguo. Sono innumerevoli gli esempi di un effetto stimolante sull'innovazione tecnologica e quindi sull'aumento della produttività. D'altro canto le distorsioni provocate dal mantenimento di un establishment scientifico-militare di proporzioni assai rilevanti creano conseguenze negative di vasta portata, che vanno ben al di là dell'economia: militarizzazione della politica estera, consolidamento di gruppi di pressione e di potere che alterano il funzionamento delle istituzioni democratiche.

Per quanto riguarda il tema del rapporto tra scienza e società, va infine sottolineato che il rapporto stretto tra un'ampia porzione della ricerca scientifica e le macchine di guerra (uso qui una felice espressione di De Rienzi e Fieschi) genera nell'opinione pubblica un'immagine della scienza pericolosa. Lo scienziato, novello apprendista stregone, è circondato da un'aura di segretezza, la scienza incute timore, forse anche perché spesso la si associa ad immagini di guerra. Una tale visione può forse appagare l'ego di qualche aspirante Stranamore, ma non giova alla scienza, la rende lontana dalle aspirazioni e dalla sensibilità delle masse, ne costruisce una immagine arcana, esoterica e terribile che contribuisce al rifiuto del pensiero scientifico e razionale.

Partirò da alcuni dati che descrivono le dimensioni della ricerca scientifica di carattere militare negi Stati Uniti d'America. Le dimensioni degli investimenti pubblici degli Stati Uniti d'America in Ricerca e Sviluppo (d'ora in poi R&D) militare sono indicative del fenomeno nella sua globalità. Il 30% di tutti gli scienziati ed ingegneri che lavorano R&D industriali operano in settori attinenti ad attività militari[1]; un po' meno del 50% di tutta la spesa in R&D negli USA è sostenuta dal governo federale e 2/3 circa di tutta la spesa federale in R&D va ad attività collegate con il Pentagono[2]. Da questi due dati segue che circa il 30% delle spese nazionali USA in R&D vanno a programmi militari (includendo tra questi anche i programmi spaziali, per i quali è difficile separare i progetti civili da quelli militari). In termini assoluti, circa 37 miliardi di dollari sui 266 previsti dal bilancio della difesa USA 1998 sono per Ricerca e Sviluppo (incluse le fasi di test e valutazione)[3]. Ad essi vanno aggiunti i finanziamenti federali alla R&D dell'industria orientata a scopi militari[4]. Su scala mondiale il totale delle spese militari si aggira intorno a 800 miliardi di dollari USA (valori del 1997); di questa circa il 10% va in spesa per R&D. Circa il 40% di tutta la spesa mondiale in ricerca è spesa per ricerca mondiale; il numero di scienziati ed ingegneri che, in tutto il mondo, lavorano su programmi militari si aggira intorno a 400.000, circa il 40% di tutti gli scienziati ed ingegneri (queste percentuali sono ancora più elevate se ci si limita a fisici ed ingegneri).

Che impatto hanno queste spese sul funzionamento dell'economia e della società americane? Si tratta di una domanda estremamente complessa che ha animato un vasto dibattito tra gli economisti. Più in generale il tema riguarda il ruolo della politica militare nello sviluppo storico delle grandi potenze e, come tale, trascende gli avvenimenti contemporanei e riguarda molteplici esempi nella storia dell'umanità . Una attualizzazione di questo dibattito, sollecitata dalla corsa agli armamenti degli anni ottanta tra USA ed URSS, si è avuta quando alcuni storici anglosassoni, tra i quali il più noto è probabilmente P. Kennedy, hanno sostenuto la tesi dell'inevitabile declino delle grandi potenze quando esse si dedichino ad una politica di impegni militari troppo estesi, appesantendo con spese economicamente improduttive il funzionamento delle rispettive economie. Una analisi comparata sarebbe di grande interesse, anche alla luce degli avvenimenti degli ultimi dieci anni, in particolare la fine dell'URSS, uno stato che dalla fine della seconda guerra mondiale ha sostenuto una spesa militare di grandi proporzioni ed un apparato scientifico e tecnologico tra i più avanzati. In particolare va notato che la vittoria degli Stati Uniti nella guerra fredda pare aver pesantemente smentito le tesi di Kennedy, dal momento che la posizione di supremazia che gli USA attualmente detengono può apparire il frutto di quella vittoria e dello sforzo militare e tecnologico da essi profuso con la corsa agli armamenti. I vaniloqui sulla fine della storia e gli scontri di civiltà hanno ulteriormente favorito la perdita di interesse per questi questioni. Essi sono, però, di grande importanza anche nella situazione odierna, non fosse altro per la inedita situazione storica di una unica superpotenza militare, gli USA, paese leader anche dell'economia mondiale, insidiati nel loro primato da potenze regionali in rapido sviluppo economico (l'Asia: in particolare la Cina) o integrazione economica e politica (l'Unione Europea). Dunque, è prematuro tirare conclusioni da una vicenda i cui esiti non sono ancora chiari e, in ogni caso, questa analisi richiederebbe più spazio di quanto non ce ne concedano i limiti che ci siamo posti. Focalizzeremo, per queste ragioni, la nostra analisi, così come abbiamo fatto sinora, sugli Stati Uniti d'America. Poiché il nostro obiettivo è una riflessione su ricerca scientifica e militare nei nostri anni, la nostra scelta non rappresenta una limitazione grave. Gli Stati Uniti sono infatti il paese leader in termini militari, di output industriale e di ricerca scientifica; dunque l'analisi del rapporto tra ricerca scientifica e militare americana fornisce una indicazione, sia pure approssimata, della realtà mondiale.

Cominceremo con qualche riflessione sull'impatto economico della spesa militare. Non è agevole valutare l'influenza della spesa militare sull'industria, giacché essa è sia diretta sia indiretta. Per impatto diretto intendiamo l'influenza che la spesa militare ha sul ciclo economico breve, sia come effetto di sostegno alla domanda e all'occupazione nel settore dell'industria militare sia come distrazione di impegni finanziari da altri settori dell'economia nazionale. Per effetti indiretti intendiamo l'influsso che la spesa in R&D militare ha sull'innovazione tecnologica e, come conseguenza, sull'intera economia, quando i prodotti innovativi vengano ceduti al settore civile.

Partiamo dagli effetti diretti della spesa militare sull'economia USA. Essi sono stati studiati da numerosi economisti e storici dell'economia, da Baran e Sweezy a Galbraith e Leonteev; le diverse posizioni hanno animato un vivace dibattito che è lungi dall'essere concluso e i cui echi si ritrovano nella discussione che hanno suscitato lo studio dei teorici del declino americano della fine degli anni Ottanta cui si è già fatto cenno.

Possiamo partire dal classico studio di Paul A. Baran e Paul M. Sweezy[5]. La loro analisi prende le mosse dall'immediato anteguerra. La politica del New Deal rooseveltiano aveva ottenuto risultati economici solo parziali. Essa intendeva rilanciare l'economia americana e farla uscire dalla grande depressione del 29 mediante una poliitica economica basata in larga misura sulle idee di J.M.Keynes. Secondo l'economista britannico la crisi nasceva da un eccesso di capacità produttiva del mondo capitalistico rispetto alla domanda globale; il rimedio proposto consisteva in una serie di politiche di intervento statale aventi lo scopo di aumentare la domanda per superare la fase depressiva dell'economia. La politica economica realizzate da Roosevelt negli anni trenta ebbe questa ispirazione: la domanda interna fu alimentata con vari strumenti, dall'adozione di elementi di welfare state e di sicurezza sociale, mediante l'introduzione di indennità per i lavoratori disoccupati e tramite una politica di opere pubbliche e di finanziamenti a progetti governativi di grande respiro. L'obiettivo era quello di immettere denaro nell'economia sia mediante il pagamento dei salari sia con il sostegno alla domanda di beni capitali. Tuttavia gli effetti furono modesti, principalmente perché le disponibilità finanziarie del governo americano erano in quegli anni piuttosto limitate; quattro anni dopo il lancio del New Deal, nel 1937, gli USA erano di nuovo nel pieno di una crisi economica. Ciò che salvò l'economia americana, il vero motore che portò gli USA fuori dalla grande depressione fu la loro entrata in guerra nel 1941 dopo l'attacco del Giappone a Pearl Harbor. Spinta dalle necessità della guerra, la spesa governativa degli USA crebbe enormemente e l'economia americana cominciò a funzionare a pieno regime.
Non era difficile prevedere che la fine della guerra, l'interruzione della produzione bellica e la smobilitazione avrebbero prodotto una nuova recessione, ciò infatti si verificò, alla fine del conflitto, anche se non i caratteri gravi della grande depressione. Ciò che salvò gli USA fu l'inizio della Guerra Fredda: la smobilitazione degli anni 46-47 si interruppe per il deteriorarsi dei rapporti con l'ex alleato sovietico. In pochi anni il mancato accordo sull'assetto postbellico in Europa, il blocco di Berlino del 48, i colpi di stato comunisti in vari paesi dell'Europa orientale, l'inizio della guerra di Corea nel 1950 davano nuovo fiato ad una contrapposizione ideologica che durava sin dalla rivoluzione bolscevica del 1917 e che era stata interrotta dall'alleanza contro il comune nemico nazifascista. Essa assunse rapidamente il carattere del confronto militare e della corsa agli armamenti. La presenza di armi atomiche, dapprima solo americane e successivamente (dal 1949) anche sovietiche aggiunse a tale riarmo un carattere di eccezionale gravità che, però, solo molto più tardi fu inteso come tale dai governanti sovietici e americani[6].

Il fatto che la spesa militare avesse salvato gli USA da una nuova crisi costituiva una novità che non poteva non attrarre l'attenzione degli economisti ed uno dei contributi di maggior rilievo fu portato da Baran e Sweezy. Secondo i due studiosi marxisti americani, l'economia capitalistica, nel suo regolare funzionamento, produce di continuo un surplus economico. Il surplus economico è un indice della produttività e della ricchezza di una società; esso, definito nel modo più semplice, è la differenza tra ciò che la società produce e i costi necessari per produrlo. Le ragioni della grande depressione del 29 e degli anni successivi vanno ricercate, secondo i due studiosi, nel sotto-utilizzo del surplus: il capitale non veniva reinvestito e, di conseguenza, cresceva la disoccupazione e diminuiva la domanda interna. Come si è detto, subito dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, gli USA hanno rischiato di trovarsi in una situazione analoga. Ciò che ha distinto la depressione anteguerra dal boom post-bellico è il ruolo imperialistico e globale assunto dagli USA. Nel 1939, per esempio, il 17,9% della forza lavoro era disoccupata e circa l'1,4% della rimanente si può presumere che sia stata occupata nella produzione di beni e servizi per la difesa. Un buon 18 per cento della forza lavoro, in altri termini era disoccupata oppure occupata in attività dipendenti dalla spesa militare. Nel 1961 (come il 1939, anno di ripresa dopo la recessione ciclica) le cifre corrispondenti furono il 6,7% di disoccupati e il 9,4% di occupati in attività dipendenti dalla spesa militare, vale a dire un totale di circa il 16 per cento. La conclusione di Baran e Sweezy è che il Pentagono ha assorbito in quegli anni il surplus economico inutilizzato. La loro analisi si spinge però oltre. Perché, si chiedono, la spesa governativa non si indirizza verso altri settori di maggiore interesse sociale, quali ad esempio, edilizia pubblica, sanità pubblica etc.? La ragione, essi affermano, risiede nel fatto che l'intervento del governo in questi settori competerebbe con l'impresa privata (edilizia e sanità privata, per restare ai due esempi citati) e ciò entrerebbe in conflitto con gli interessi dell'oligarchia dominante. Al contrario la costruzione di un grande establishment militare non entra in competizione con gli interessi delle imprese private. Anzi la grande impresa favorisce l'espansionismo militare perché esso protegge sia i suoi interessi interni sia quelli all'estero.
Baran e Sweezy non erano stati i primi, né rimasero soli nel criticare il peso crescente dell'establishment militare e della industria di difesa americana. Già il presidente D. Eisenhower, che pure non era sospetto di simpatie antimilitariste (fu capo di Stato Maggiore durante la Seconda Guerra Mondiale), aveva pronunciato nel 1961, nel discorso di commiato alla fine del suo secondo mandato presidenziale, la seguente celebre frase: "La convergenza di un immenso apparato militare e di una grande industria bellica è un fenomeno nuovo nell'esperienza americana. La sua influenza - economica, politica e perfino spirituale - si fa sentire in ogni città, negli organi di governo di ogni stato, in ogni ufficio del governo federale... Dobbiamo stare in guardia contro l'acquisizione di un'indebita influenza esercitata, deliberatamente o meno, dal complesso militare industriale".

Un altro critico, di tendenza liberal, fu l'economista Galbraith. Nel suo libro Il nuovo stato industriale egli va al di là dell'osservazione relativa all'esistenza di un complesso militare industriale. L'influenza di questo complesso, che egli chiama tecnostruttura[7], supera i confini dell'economia e raggiunge il campo della politica; la tecnostruttura è tale da influenzare il punto di vista ufficiale sulle necessità della difesa americana ed è quindi capace di influire sulla stessa politica estera americana. La vera novità introdotta da Galbraith è però un'altra. Secondo Galbraith, il Dipartimento della Difesa funziona come una grande agenzia di pianificazione economica, con effetti profondi sull'economia nel suo complesso ed in particolare in certi ambiti economici, come lo sviluppo tecnologico, per l'innovazione continua assicurata dalla R&D militare, e lo sviluppo regionale, mediante l'assegnazione di commesse industriali ai diversi stati dell'Unione. Può essere utile notare che questa funzione programmatrice non è criticata da Galbraith che, al contrario, vede con favore l'introduzione di elementi di pianificazione nel funzionamento dell'economia.

Un grande complesso militare industriale non può però giustificare la sua esistenza se non esercitando il ruolo per il quale è stato edificato, cioè quello di strumento di politica militare. Questo fu il punto di vista di alcuni critici della fine degli anni 60 e degli anni 70, i quali videro in quegli anni il coinvolgimento massiccio degli USA nella guerra in Vietnam con il peso crescente dell'establishment militare e dell'industria bellica nella politica USA. Tra questi critici va segnalato S. Melman[8] secondo il quale l'economia di guerra è una necessità non dell'economia capitalistica nel suo complesso, ma solo di un suo settore. La spesa militare rappresenta un handicap per l'economia americana per varie ragioni, ma soprattutto per la perdita di efficienza che essa comporta. Difatti il settore militare è protetto dalle intemperie del mercato: i profitti sono garantiti; è possibile, anzi è normale far lievitare i costi; gli impegni sono generalmente di lunga durata e quindi garantiscono una domanda certa per le imprese interessare. Tutto questo alimenta distorsioni, sprechi, inefficienza; questi difetti sono accresciuti dalla burocrazia nella quale l'industria bellica USA opera e rappresentano un peso eccessivo per l'economia americana che si traduce in perdita di competitività e di produttività.

A partire dagli anni settanta il dibattito si è spostato sul problema dell'innovazione tecnologica, della R&D militare ed il suo rapporto con quella civile. L'innovazione tecnologica di origine militare non nasce ovviamente negli anni 70, ma è fenomeno ricorrente nella storia della tecnologia. Nel caso degli USA il fenomeno assume un rilievo particolare a partire dalla Seconda Guerra mondiale, a causa dell'enorme sforzo che gli USA realizzarono in quegli anni in R&D militare, soprattutto con il progetto Manhattan di costruzione delle armi atomiche. Questo sforzo fu mantenuto durante la guerra fredda, periodo caratterizzato dalla corsa agli armamenti con l'URSS le cui caratteristiche più impressionanti non sono tanto quelle quantitative (le decine di migliaia di testate nucleari e le migliaia di vettori accumulate dalle due superpotenze), quanto quelle qualitative, cioè il continuo ammodernamento tecnologico dei sistemi d'arma e dell'infrastruttura. Durante questo periodo (1945-1991) il ruolo guida nel processo di ammodernamento tecnologico militare fu quasi costantemente svolto dagli USA. Per fare un esempio, la bomba a fissione fu realizzata dagli USA nel 1945 (dall'URSS nel 1949).

In molti casi la R&D militare ebbe rilevanti ricadute civili. Ricordiamo alcuni esempi.

  • Industria aeronautica.
    L'industria aeronautica civile americana è discendente diretta della R&D militare in campo aeronautico durante la seconda guerra mondiale. Infatti molti degli aerei civili sviluppati nel dopoguerra furono adattamenti di aviogetti utilizzati nel conflitto mondiale: il bombardiere Boeing B-47 fu trasformato nell'aereo per passeggeri Boeing 707, mentre il Boeing 747 fu basato su disegni non utilizzati per il cargo C-5 dell'aeronautica militare USA[9]. Anche lo sviluppo della aeronautica militare sovietica precedette quella civile e la influenzò[10]
  • Microelettronica
  • Energia nucleare
  • Reti informatiche
    Nel 1969 l'agenzia di ricerca del pentagono ARPA (Advanced Research Projects Agency) diede origine ad una rete di computer ARPAnet allo scopo di fornire agli ingegneri ed informatici americani che lavoravano su contratti militari la possibilità di condividere risorse di calcolo costose e limitate. Un secondo passo in direzione della costruzione della rete fu realizzato subito dopo, con l'invenzione di un protocollo per scambiarsi messaggi (E-mail). Fino al 1983 questa rete, ribattezzata Internet, comprendeva meno di 500 computer ospiti, principalmente in laboratori militari e dipartimenti di Computer Science. Una delle sue caratteristiche è il carattere anarchico delle connessioni e la ridondanza delle vie di collegamento; per quanto possa apparire a prima vista strano, anche questa caratteristica è di origine militare. Il progetto ARPAnet aveva lo scopo di costruire una rete robusta in grado di sopravvivere ad un attacco nucleare massiccio; la mancanza di un centro di controllo e la ridondanza dei collegamenti garantivano che, anche in presenza di un attacco devastante che distruggesse una gran parte dei collegamenti, sarebbero sopravvissuti links in numero sufficiente a permettere ai nodi superstiti di comunicare. A partire dai primi anni novanta Internet è letteralmente esplosa a causa della crescita esponenziale dei nodi. Ciò si è realizzato principalmente per lo sviluppo di un nuovo protocollo che ha enormemente facilitato le comunicazioni. Si tratta della procedura hypertex, cioè la possibilità di legare tra di loro documenti. Ciò ha portato alla realizzazione di una rete mondiale (www: world-wide-web) di accesso estremamente semplificato. Può essere utile riflettere sul fatto che quest'ultima innovazione, di straordinaria importanza per le telecomunicazioni civili e per lo sviluppo commerciale, non è stata realizzata in ambiente militare, ma al CERN di Ginevra. Questo è un esempio abbastanza significativo del fatto che lo sviluppo di tecnologie fortemente innovative ha bisogno di una grande e corposa comunità tecnico-scientifica (il Centro Europeo di Ricerche Nucleari è uno dei più importanti centri mondiali di ricerca). Non necessariamente questa comunità deve avere legami con gli ambienti militari (le ricerche del CERN non hanno alcun interesse per le forze armate). Tuttavia il fatto che tanta parte della R&D mondiale si svolga in laboratori militari con ampi mezzi finanziari a loro disposizione ha come conseguenza il legame tra ricerche militari e innovazioni scientifiche che più volte abbiamo finora sottolineato.

Gli esempi di spin off che abbiamo esaminato mostrano che le ricadute civili sono frequenti, anche se non programmate a priori. Uno degli argomenti più frequentemente adoperati dai sostenitori dei vantaggi della R&D militare è il seguente. Il Pentagono è in grado ed ha la volontà di realizzare ricerche molto rischiose dal punto di vista economico, a causa dell'elevato rapporto costi/benefici. Si tratta, cioè, molto spesso, di ricerche costose e dagli esiti incerti, che richiedono investimenti non giustificabili economicamente e tali da scoraggiare qualsiasi industria privata. Il motivo per cui il Pentagono può affrontare tali investimenti risiede nel fatto che la motivazione del Pentagono è ovviamente politica, non economica. Un altro aspetto è il seguente: le aziende che ricevono commesse militari importanti hanno un mercato ed un profitto garantito per vari anni, il che può aiutarle a sostenere gli alti costi iniziali. Un esempio ben noto è costituito dai microcircuiti. Ne 1963 il 100% di tutti i circuiti integrati monolitici fu venduto al Dipartimento della Difesa (DOD) per i sistemi di guida dei missili Minuteman II. Dieci anni dopo il DOD acquistava solo il 15% della produzione complessiva dei microchip; nello stesso periodo il prezzo del microchip passava da 50$ a 1$.
Appare quindi condivisibile l'opinione di Fieschi[11], secondo cui nei primi stadi dell'evoluzione di una particolare tecnologia gli investimenti militari diretti o indiretti possono agire da stimolo, minimizzando i rischi per le imprese. Resta aperta però la questione se questo vantaggio permane nella fase evolutiva successiva. Di questo parleremo poi.

Attraverso quali meccanismi la R&D militare ha ricadute civili? Questo meccanismo di spin off non avviene di solito mediante una scelta deliberata; non esistono difatti reali incentivi a spostare l'innovazione dal settore militare a quello civile, anzi la pratica del segreto militare disincentiva il trasferimento tecnologico. Lo spin off della R&D militare è una conseguenza di alcuni meccanismi generali attraverso i quali si realizza l'innovazione tecnologica nelle moderne società industriali. Il primo è quello della interdipendenza dei vari settori di delle economie industriali, una proprietà del tutto generale, non limitata all'innovazione prodotta in ambiente militare. L'interdipendenza assicura che un aumento di produttività in un dato settore viene avvertito in altre parti dell'economia, anche molto lontane dal settore nel quale l'innovazione ha avuto luogo. In generale questa proprietà nasce dal fatto che molte imprese non producono beni di consumo, bensì beni-capitale, cioè macchine per la produzione di beni di consumo, attraverso le quali i benefici dell'innovazione tecnologica vengono esportati in settori diversi da quelli di partenza. Può anche capitare che un'industria incorpori un know-how di origine militare non in prodotti di consumo ma in prodotti intermedi, attraverso i quali il processo innovativo fa sentire i suoi effetti altrove. Esistono esempi ben studiati di questo fenomeno. Ad esempio lo sviluppo dell'industria chimica e della plastica ha avuto influssi in settori diversissimi, dall'agricoltura (industria dei fertilizzanti) all'industria edilizia (ad esempio i laminati plastici che proteggono le maestranze dalle intemperie hanno aumentato la produttività in edilizia). Analoghi fenomeni si sono verificati per le innovazioni tecnologiche nel campo dell'energia, dei trasporti, delle telecomunicazioni, dei servizi, etc.
L'interdipendenza dei diversi comparti industriali crea un fenomeno interessante, di rilievo per le applicazioni civili della R&D militare: può capitare che alcune industrie non effettuino spese in R&D e realizzino ugualmente aumenti di produttività approfittando dell'innovazione tecnologica prodotta in altri settori dell'economia. Questo meccanismo permette alle singole industrie di accedere ai benefici dell'innovazione tecnologica senza caricarsi dei costi eccessivi della ricerca. Può essere utile notare qui come l'URSS, che durante la guerra fredda mantenne un livello elevatissimo di spese militari e che investiva moltissimo in R&D militare, non riuscì in generale a realizzare rilevanti spin off di questa ricerca probabilmente per l'assenza, nella società sovietica, dei flussi interindustriali tipici delle economie di mercato. L'URSS subì quindi gli svantaggi di una grande spesa militare senza godere dei suoi vantaggi indiretti.

Un secondo meccanismo di spin-off nasce dal fatto che l'innovazione tecnologica è un processo raramente appariscente. Non dobbiamo pensare alla grande invenzione isolata, ma ad un processo cumulativo costituito da una lenta e spesso invisibile proliferazione di perfezionamenti[12] , ciascuno dei quali, preso individualmente, rappresenta una innovazione minore, ma che, nel loro insieme, possono produrre notevoli aumenti di produttività. Esistono molti esempi tratti dalla storia della tecnologia che illustrano questa proprietà; rimandiamo al testo di Rosenberg per una illustrazione di questo punto[13]. È possibile, ma non dimostrato, che attraverso questo meccanismo la R&D militare possa influenzare l'innovazione tecnologica nel settore civile dell'industria. È però probabile che questo meccanismo operi piuttosto in un secondo tempo, quando l'innovazione ha già raggiunto il settore civile.

L'analisi svolta finora ha mostrato vari esempi di ricadute della R&D militare sul settore civile, ma non si è soffermata dei costi che la società americana, e il mondo nel suo complesso, sostengono per ottenere questi risultati. Un primo effetto negativo riguarda proprio l'innovazione tecnologica. Solo alcune grandi industrie sono in grado di assicurarsi le lucrose commesse del Pentagono; esse operano, quindi in regime di semi-monopolio il che riduce la spinta all'innovazione tecnologica perché è minore la competizione cui esse sono sottoposte. Un secondo effetto negativo risiede nelle condizioni migliori (paghe più elevate, stabilità nei finanziamenti per la ricerca) in cui lavorano gli scienziati dei laboratri di ricerca militari. Se si aggiunge a ciò il richiamo esercitato dalla possibilità di lavorare in imprese scientifiche-tecnologiche di grandi dimensioni, si comprende come la R&D militare comporti un vero e proprio brain drain, un drenaggio di cervelli e di risorse dal settore civile. Questo fenomeno si è attenuato con la fine della guerra fredda; anzi nell'ex URSS il settore della ricerca militare è in smobilitazione. Tuttavia il dopoguerra fredda ha visto una netta diminuzione anche delle risorse impegnate nella ricerca fondamentale, non solo in Russia e negli altri paesi successori dell'Unione Sovietica, ma anche negli Stti Uniti (si pensi alla chiusura del progetto SSC), per cui non si può dire che ci sia stato un riequilibrio complessivo a favore della ricerca fondamentale e applicata a scopi civili. Dunque né l'uno né l'altro paese paiono in grado di riassorbire nel settore civile gli scienziati che abbandonano la ricerca militare. Si verifica così un grande spreco di risorse umane ed intellettuali.
Un'altra, e più rilevante conseguenza negativa è la crescita sproporzionata del sistema costituito dal binomio forze armate - industria militare: Questo vale sia per gli USA, sia, retrospettivamente, per l'URSS. È difficile sostenere che il complesso militare-industriale abbia dimensioni adeguate alle minacce esterne rivolte agli USA, mentre il suo effetto principale pare quello di influire negativamente sulla politica estera americana, favorendo una sua continua militarizzazione a discapito della valorizzazione dela diplomazia. Nel caso dell'URSS, poi, possiamo osservare oggi che esso non solo non ha impedito, ma anzi ha favorito la disgregazione interna dello stato sovietico. Come si è visto, si può sostenere che il complesso militare industriale USA svolge una funzione di agente economico federale, anzi che esso è il più importante soggetto economico americano. Il punto però che indebolisce questo argomento è che le finalità di questa pseudo-agenzia di programmazione sono di natura militare e al più politica, nel senso che essa garantisce la disseminazione sul territorio federale delle commesse militari. Mancano proprio le finalità economiche che giustificherebbero e renderebbero plausibile questo ruolo succedaneo.

[1]L.L.Dumas: University Research, Industrial Innovation, and the Pentagon, in J. Tirman ed., The Militarization of High Technology, Ballinger, Cambridge, USA,1984.
[2]M.L.Dertouzos,R.K.Lester, R.M.Solow, Made in America, Ed. di Comunità, Milano 1991, p.139.
[3]The International Institute for Strategic Studies, The Military Balance 1998-99.
[4]Secono dati della ref. 4 essi ammontavano al 20% circa del totale della spesa in R&D dell'industria USA nel 1981, cioè circa 10 miliardi di dollari USA; se questo livello di spesa si fosse mantenuto inalterato (ma manco di dati recenti a riguardo, quindi si tratta solo di una estrapolazione) si tratterebbe di 20 miliardi di $ del 1998, che si aggiungerebbero ai 36 in investimenti diretti.
[5]P. Baran e P. Sweezy, Il Capitale Monopolistico, Torino 1968.
[6]La svolta fu probabilmente rappresentata dall'acquisizione da parte di entrambe le superpotenze, negli anni 1952-53 di ordigni termonuclerari, dotati, a differenza delle prime armi atomiche, di potere distruttivo praticamente illimitato, si veda Holloway.
[7]J.K.Galbraith, Il nuovo stato industriale (1967).
[8]S. Melman, Economia permanente di guerra: il capitalismo americano in declino.
[9]J. Tirman, The Defense-Economy Debate, in J. Tirman ed., The Militarization of high technology.
[10]D. Holloway
[11]R. Fieschi, in USPID, Tecnologie Avanzate; Riarmo o Disarmo? (Bari, 1987).
[12] Usiamo l'espressione di N. Rosenberg, Dentro la scatola nera: tecnologia ed economia, Mulino, 1991.
[13] Un esempio descritto da Rosenberg è quello dei motori marini. In questo campo l'innovazione tecnologica, realizzata in larga misura nel secolo XIX, consistette in molte piccole invenzioni, quali, ad esempio, riscaldatori dell'acqua di alimentazione, migliorie nelle pompe per l'aria, accorgimenti per stagnare i tubi in rame del condensatore, passaggio dal rame all'ottone per proteggere i tubi dall'azione galvanica, miglioramenti sull'elica per adattare continuamente l'angolo di incidenza della pala dell'elica alla velocità della nave, etc.